Le maioliche senza tempo di Tre Erre Ceramiche

Articolo di Tiziana Bonsignore

In via Roma a Palermo, a pochi passi dal Teatro Massimo e nel cuore della Palermo liberty, abbiamo fatto visita a Tre Erre Ceramiche, negozio di Francesco Raffa, al quale abbiamo chiesto la storia del negozio e dei suoi prodotti. 

Francesco, vogliamo ripercorrere la storia della vostra azienda?

Sono Francesco Raffa, e dirigo a Palermo un’azienda che nasce con i miei genitori nel 1979, dal nome “Tre Erre Ceramiche”. Il nome aziendale lo dobbiamo alle iniziali di mia madre, che si chiama Rosa Russo, sposata Raffa. Noi produciamo ceramiche a Palermo da quella data, sempre in ossequio a quella tradizione, poco conosciuta ai più ma assai importante, che è la tradizione maiolica palermitana. Infatti, per rielaborare motivi della nostra tradizione cittadina, produciamo le nostre opere seguendo gli stili del periodo barocco locale; motivi che oggi vengono rielaborati anche in altre zone della Sicilia, e che a volte vengono fraintesi come appartenenti a tradizioni in realtà aliene a quella cittadina.

Quali sono le caratteristiche e le tecniche del vostro lavoro?

La nostra produzione trae spunto da quanto veniva prodotto a Palermo nella metà del secolo XVII, e quindi ci riferiamo a decorazioni intimamente legate al tessuto della città. Le materie prime oggi arrivano dalle industrie già preparate per l’utilizzo. Le nostre argille provengono oltre che dalla Sicilia anche da altre zone di Italia, come la Toscana, così come anche i colori e gli smalti. La produzione della maiolica consta di due fasi principali. La prima riguarda la creazione dell’oggetto dall’argilla alla terracotta; a seguito della prima cottura si ottiene ciò che viene definita terracotta. La terracotta viene dunque sottoposta a una smaltatura, sulla quale realizziamo poi la decorazione pittorica con l’utilizzo esclusivo del pennello. Per ultimare questa seconda fase, si procede con una seconda cottura che dà vita alle opere finite, che vendiamo qui a Palermo come facciamo qui da quarantatré anni, sempre con l’orgoglio di produrre nella stessa città, con manodopera palermitana, e soprattutto secondo i dettami della tradizione barocca locale.

Qual è il vostro rapporto con la tradizione?

Il nostro legame con la tradizione si concretizza soprattutto nell’utilizzo di determinati motivi decorativi, mentre le forme e gli oggetti che creiamo sono chiaramente legati ai bisogni della civiltà moderna. Di conseguenza oggi produciamo oggetti che i nostri avi non creavano. Precisiamo che la produzione di maioliche in città nel periodo cui facciamo prevalentemente riferimento, ossia tra i secc XVII e XVII, era quasi esclusivamente limitata ai vasi da farmacia che gli aromatari (speziali, ndr) utilizzavano per la raccolta delle erbe mediche. Per questo non si hanno piatti, o pigne, che venivano realizzati già in quel periodo ma non nella città di Palermo. Qui la produzione era dominata da questa grande “casta”, se così la vogliamo definire, degli aromatari, che richiedevano opere maiolicate di un certo livello. Opere che inizialmente, tra l’altro, arrivavano dal mare (da Faenza in primis, ma anche da altre zone d’Italia), e che poi si cominciarono a produrre anche in città perché ne aumentava la richiesta. 

Chi sono i destinatari delle vostre opere?

Noi oggi cerchiamo di raggiungere un pubblico vasto, che comprenda anche chi non ama la ceramica tradizionale. Per questo motivo tentiamo anche di sperimentare, in maniera empirica e per tentativi, per realizzare produzioni originali, attraverso l’uso di cristalline colorate, di colori reagenti. Creiamo anche opere che possano incontrare il gusto di un pubblico più giovane e che tendiamo a produrre cercando di “svecchiare” la produzione. Tuttavia l’intimo legame con la produzione rimane nelle tecniche utilizzate per l’esecuzione delle tecniche. Noi, esattamente al pari dei nostri avi nel XVI e nel XVII sec, utilizziamo soltanto strumenti come il tornio e i pennelli per decorare, tutti strumenti usati già a quei tempi. Non usiamo alcun macchinario per la decorazione, non usiamo alcun macchinario per la smaltatura, non usiamo alcun macchinario per la creazione delle forme; realizziamo tutto a mano esattamente come i nostri avi.

Nei negozi di souvenir, a Palermo, vengono venduti oggetti in ceramica prodotti in serie e a prezzi bassissimi. Voi artigiani della ceramica avete qualche forma di tutela?

No, non esiste. Sta all’occhio del cliente comprendere qual è la differenza tra un’opera interamente realizzata a mano e un’opera fatta con tecniche non artigianali o stampi di vario genere. È chiaro che ci sono opere che incontrano il favore del pubblico in questo periodo, come le “teste di moro” o le pigne, che possiamo ritrovare ovunque, in tutte le città siciliane e anche altrove. Bisogna avere la capacità di discernere ciò che è prodotto in maniera artigianale e ciò che è prodotto in maniera seriale: a cambiare certamente è il prezzo. Ma ci sono dei requisiti che il prodotto artigianale ha e che nessun prodotto non realizzato a mano può avere. Le opere in ceramica per me sono uniche ma ripetibili, nel senso che il prodotto artigianale in ceramica (anche se questo vale anche per le varie forme di artigianato) è comunque sempre unico, ogni esemplare ha delle sue caratteristiche differenti da altri oggetti anche simili. La ripetibilità è nel fatto che si possono riprodurre più volte oggetti simili, ma mai lo stesso oggetto, mentre quando si acquista un prodotto realizzato da un’industria, si compra mille volte lo stesso oggetto e sarà mille volte uguale a se stesso.

Che senso ha per voi creare ceramiche legate alla tradizione, nei nostri tempi?

Per quanto riguarda la nostra produzione il legame con la tradizione è un legame con la famiglia, che ci unisce a chi ci ha preceduto e che incontra il gusto di chi ci ha preceduto. Paradossalmente, realizzare qualcosa di tradizionale, è a mio giudizio più facile che realizzare rispetto al realizzare qualcosa di tradizionale. Ma non dal punto di vista tecnico: facile nel senso che più facilmente può incontrare il gusto del cliente, di colui che acquista le ceramiche. Sono convinto, e questa è una convinzione maturata negli anni, che la produzione legata al periodo barocco cui noi facciamo ampio riferimento, abbia maggiore capacità di penetrare il mercato rispetto a una produzione di altro stile, come lo stile naif, il quale certo in determinati periodi può avere maggiore successo ma è comunque destinato a una vita breve dal punto di vista commerciale. Il legame con la tradizione, oltre che un ossequio a ciò che hanno fatto ai nostri avi, è anche esito della volontà di fare qualcosa che incontri il gusto del nostro pubblico.

Ma queste famose teste di moro, questi tipici vasi dalle sembianze di volto umano, che storia hanno?

È legata a una leggenda che vorrei raccontarvi. Intorno all’anno mille, durante la dominazione araba, una giovane fanciulla di rara bellezza vivesse nel quartiere della Kalsa (quartiere storico palermitano, ndr). Ebbene questa giovane donna, proprio per la sua bellezza, era tenuta segregata in casa dai genitori e trascorreva le giornate prendendosi cura degli unici esseri viventi ai quali le era concesso relazionarsi: le piante del suo rigoglioso giardino. Un giorno, un giovane arabo sarebbe venuto a conoscenza di questa storia e avrebbe voluto verificare se ciò che si diceva a proposito della bellezza della fanciulla corrispondesse al vero. Così si avvicinò al giardino della ragazza, la trovò intenta ad accudire le piante, e si dice che a qual punto si invaghì perdutamente di lei, tanto da decidere di fare irruzione a casa della fanciulla per dichiararle il proprio amore. Avrebbe ricevuto in cambio un sincero amore anche da parte della fanciulla, quindi tra i due nasce una passione che si consuma in una giornata trascorsa a casa della ragazza. Alla fine della giornata, l’arabo avrebbe fatto alla donna una proposta di matrimonio, invitandola a seguirla nel proprio paese dove sarebbe divenuta una tra le spose del suo harem. La donna, felice della proposta di matrimonio, apprende solo in quel momento cosa sia un harem. L’idea della condivisione con altre di quello che considerava il suo unico uomo non la trovò d’accordo. Decise quindi di proporre all’uomo una via d’uscita: rimanere a Palermo e vivere per sempre con lei. 

Ma l’uomo lasciò intendere che l’indomani sarebbe tornato al proprio paese, dove lo attendevano mogli e figli, con o senza lei. Quindi si lascia vincere dal sonno, commettendo l’ultimo errore della sua vita, perché si addormenta nel letto della ragazza la quale, avendo compreso che l’indomani avrebbe perso l’uomo e condotta alla follia da questo estremo dolore, pensa che l’unica strada per prendersi cura del suo unico amore, sarebbe stato quello di ucciderlo. In questo modo, la ragazza avrebbe fatto della testa dell’arabo un contenitore per la più nobile delle piante, la pianta del re: il basilico, nome che in greco significa “pianta del re”. 

Così, dopo averlo decapitato, vi avrebbe piantumato nel cranio del basilico e lo avrebbe messo in bella mostra tra le piante del giardino. Il basilico ha bisogno di un’esposizione al sole diretto, di cure particolari per crescere rigoglioso: si dice che il basilico nella testa dell’arabo crescesse così bello da destare invidia nei vicini, i quali, per non essere da meno, si fecero realizzare delle teste in terracotta per tenervi il basilico. Si dice che in applicazione della legge del taglione, alla fanciulla che si era resa rea di omicidio per decapitazione, fu riservata dagli arabi che scoprirono l’omicidio la stessa triste sorte. Così anche la testa della giovane palermitana divenne un contenitore per il basilico. Vengono definite entrambe “teste di moro” per i tratti somatici di uno dei protagonisti: la carnagione scura, il castano o il nero dei capelli. 


Tessuti, forme e geometrie: Vuedu
Articolo di Tiziana Bonsignore