Vesuvio, terra fertile: conosciamo insieme i vini della Tenuta Augustea

Articolo di Mattia Passariello

Somma Vesuviana, cittadina di 35000 abitanti in provincia di Napoli e alle pendici del Vesuvio, si trova una delle più interessanti realtà vinicole del territorio: la Tenuta Augustea di Vincenzo Nocerino. Una storia di famiglia che va avanti da tre generazioni e che sembra non conoscere pause grazie alla determinazione di Vincenzo, al sapiente lavoro dell’enologo Antonio Felaco e ad un know-how aziendale tutt’altro che scontato nel territorio. 


Vincenzo, come nasce la Tenuta Augustea?

Nasce nel 1945, nel periodo post-bellico. A fondarla è mio nonno Vincenzo, papà di Angelo. All’inizio, possedeva dei piccoli appezzamenti di terreno sul Monte Somma. Lui portava al mercato l’uva, per la maggior parte Catalanesca (oggi IGP) e Aglianico.

Un disastro ambientale nel quale quasi tutta l’uva venne distrutta divenne la difficoltà da trasformare in opportunità: lì nacque l’idea di convertire l’uva in vino. All’inizio si trattava di un generico vino bianco non denominato, portato nelle case dei napoletani attraverso il classico “porta a porta”. Da allora, abbiamo costantemente incrementato i vigneti, che ora possediamo per circa 30 ettari di estensione.

Mio padre entrò in gioco negli anni Sessanta: fu lui ad allargare i vigneti e l’azienda, e fu allora che iniziò la vendita estensiva su tutto il territorio nazionale. Con il mio ingresso in società, avvenuto nel 1995, si è cercato con successo di ampliare il mercato all’Europa e agli Stati Uniti. In tutti questi anni, abbiamo sempre cercato di soddisfare tutti con il nostro prodotto locale. Dieci anni fa nasce anche il marchio Tenuta Augustea: cerchiamo di avere sempre attrezzature all’avanguardia per avvicinarci ad un prodotto perfetto.

Ingresso Tenuta Augustea

Che metodo di lavorazione utilizzate e quanto ha aiutato la fertilità del terreno ai piedi del Monte Somma?

La prima fase verso cui prestiamo la massima attenzione e cura è quella della selezione delle uve. Con Antonio, enologo giovane ma di grande valore, miriamo alla qualità e abbiamo già ricevuto numerosi premi da importanti riviste. Lui (Antonio, ndr) cerca sempre di non uscire dallo standard naturale del vino.

La prima parte importante del lavoro è sul vitigno: è un approccio che parte dal campo per poi arrivare in cantina. Quindi parte dalla potatura, dalle decisioni che si prendono in base alla fioritura e alla formazione dei grappoli. Molto dipende anche da come si presenta l’uva: se l’uva si presenta, ad esempio, con bucce considerate di ostacolo, ci si comporta in un modo, diversamente in un altro.

Per quanto riguarda il terreno, ci sono dei pro e dei contro. I suoli del Vesuvio sono fertili, ma nella viticoltura questa fertilità si è concretizzata in una spinta in azoto che può dare molto fastidio alle piante. La fertilizzazione va dunque studiata per avere un apporto bilanciato dei nutrienti di cui ha bisogno la pianta.

Per quanto riguarda il drenaggio, notiamo che nei suoli di alta montagna, dove la percentuale di sabbia è molto elevata, la sabbia è molto drenata e la pioggia non si ferma intorno alla pianta, il che è un problema nelle annate molto siccitose. Fortunatamente, i vitigni che abbiamo qui riescono a resistere tutto sommato bene alle siccità e alle varie problematiche che si presentano. Inoltre, i territori del Vesuvio sono sabbiosi e ciò consente di mantenere parti di vigneto a piede franco (per quanto quest’ultima modalità sia stata in gran parte superata dai portainnesti), in quanto la fillossera (l’insetto che di solito distrugge i vigneti a piede franco) non riesce ad attecchire su grandi concentrazioni di sabbia.

La tecnica di drenaggio, in ogni caso, è importante così come la scelta della strategia giusta: valutiamo sempre in base all’annata, ad esempio, se effettuare un livellamento o una rottura del terreno. Una particolarità del nostro terreno è la differenza tra le parti sabbiose e quelle più argillose, un contrasto che ci consente di valutare risultati diversi. 

Fermentatori in acciaio della Tenuta Augustea

Quale considerate essere il vostro prodotto di punta?

Il vitigno più coltivato è la Catalanesca. Più indietro Caprettone e Falanghina, sui quali comunque – per volontà di Vincenzo – si è deciso di lavorare in purezza. Il Lacryma Christi bianco è stato il prodotto su cui l’azienda si è concentrata fin da subito inizialmente e quello con più richiesta.

Col passare degli anni, tuttavia, le vendite di questi prodotti sono andate ad equivalersi: tutti hanno guadagnato la propria fetta di mercato. Il Lacryma Christi continua ad avere qualche numero in più, ma anche perché è uscito molto prima. Con Cataluna, ovvero la Catalanesca in purezza, abbiamo però un maggiore richiamo verso il territorio.

Bisogna poi tenere conto del fatto che spesso è il mercato a richiamare i vini, come nel caso del Piedirosso, che è stato apprezzatissimo sia a livello nazionale che all’estero. 


A proposito di estero, Tenuta Augustea esporta vini in numerosi Paesi. Quali sono le aree dove esportate di più?

I mercati europei stanno dando molte soddisfazioni: quello tedesco, in particolare, è molto stabile. Gli Stati Uniti sono un mercato interessante, ma presentano una difficoltà aggiuntiva legata al rapido cambiamento delle mode, una caratteristica peculiare degli USA.

La Falanghina frizzante è molto apprezzata sul mercato inglese. Sugli altri territori si lavora molto, ma ci sono alcuni ostacoli da superare: le mode, le tradizioni differenti dei vitigni.

Vini della Tenuta Augustea

Quali progetti avete per il futuro?

La priorità è valorizzare ed esaltare al massimo il territorio. Attraverso il nostro vino possiamo dare un contributo importante all’agricoltura sommese. La Catalanesca è un vitigno di non semplice coltivazione e quello del Monte Somma, nonostante la relativa fertilità, non è un territorio di agevole gestione.

Gli obiettivi, ovviamente, guardano anche più lontano e più precisamente all’estero. Siamo già molto presenti in Europa, in Cina, in Giappone e negli USA, specialmente in Florida.

Stiamo cercando ora di aprire una nuova frontiera di mercato in Nordafrica, un territorio che potenzialmente può darci notevoli soddisfazioni in futuro. L’importante è far conoscere i prodotti vesuviani, che hanno una marcia in più per il tipo di terreno che è alla loro base. Può essere un’opportunità anche per tanti giovani vesuviani, che molto spesso non conoscono nemmeno le potenzialità del loro stesso territorio.


Pierobì: quando l’arte del gioiello è una questione di famiglia
Articolo di Rosaria Carifano