Suo nonno, che non ha mai conosciuto, costruiva biciclette su misura per i ricchi. Suo padre, invece, non solo costruiva bici per la clientela comune, ma anche per gli atleti. E addirittura aveva una sua squadre ciclistica, formata da non professionisti – fruttivendoli, falegnami e artigiani, allenati più perché usavano le bici come strumento di trasporto e non di allenamento – che con la forza delle loro gambe mettevano in difficoltà i professionisti, al punto che questi erano costretti a corromperli pur di non fare vincere uno sconosciuto.
Oggi, lui, Massimo Cannatella, forte di un cognome che è anche un brand, nella sua bottega in via Papireto a Palermo, oltre a vendere, aggiustare e restaurare biciclette, crea mezzi su due ruote d’arte. Perché il suo è un vero e proprio atelier del mondo della bici che si affaccia a poca distanza dalla Cattedrale di Palermo.
Nonno Antonino, detto Nene, aprì in questa zona all’inizio’900 quando la bici era un mezzo essenziale di trasporto e solo pochi se lo potevano permettere. Poi subentrò Salvo, capace di portare la sua esperienza di ciclista sportivo e capace di creare manifestazioni di ciclisti in una città come Palermo – dove la bici, in particolare negli anni Settanta e Ottanta non era vista di buon occhio – che vedevano mille persone sulle due ruote muoversi insieme in città. Dopo la sua improvvisa morte, è toccato, suo malgrado, a Massimo, l’ultimo di sei figli, prenderne l'eredità, dando ulteriormente un nuovo senso al marchio Cannatella, in nome della bellezza. Ora la bici non è più solo artigianale, ma è anche opera d’arte contemporanea.
Massimo Cannatella, può raccontarci la storia di questo spazio pieno di bici che hanno visto tanti chilometri e tanta storia?
«L'azienda nasce col nonno, Antonio, detto Nenè, poco dopo la prima guerra mondiale. Non ho trovato ancora una data ufficiale di apertura nei documenti a mia disposizione e in quelli che ho ricercato. Il negozio era sempre qui, in via Papireto, ma in un altro punto. Il laboratorio era collegato alla sua casa. Faceva infatti una vita, come si dice in Sicilia, “casa e putia”. Nonno le biciclette le costruiva letteralmente, non era un assemblatore. Ma comprava i tubi con il materiale per creare il telaio e li faceva su misura del cliente. Poi indossava la maschera e li saldava, verniciava, limava e assemblava creando delle biciclette che hanno fatto la storia. Chiaro che in quel periodo anche la stessa bicicletta non lusso, pochi si potevano permettere la macchina, qualcuno la bicicletta.
La sua eredità è stata presa da mio padre Salvo col fratello Enzo e poi solo da mio padre, che era un tipo molto istintivo, atletico, sportivo. Persino la bicicletta con cui correva nelle gare se l’è costruita da solo.
Negli anni della crisi petrolifera degli anni Settanta inventava manifestazioni dedicate ai ciclisti che attraversavano l’intera città. Tutti lo prendevano per pazzo. Ci sono tante testimonianze fotografiche, che non ho, di questi appuntamenti».
E lei invece, cosa può raccontarci del suo di contributo al marchio Cannatella, rappresentando la terza generazione?
«Io entro in gioco il 12 ottobre 1985. Data fatale per me, perché mio padre improvvisamente muore.
Lui desiderava che non facessi questo mestiere, anche perché io nella mia vita non avevo mai cambiato neanche una camera d’aria. Eppure, pochi giorni dopo la sua morte, ho chiesto a mia madre le chiavi del negozio di papà. Ho alzato la saracinesca e quindi ho continuato questa attività tra mille difficoltà. Inizialmente nessuno mi dava fiducia, anche in famiglia.
La storia di mio padre pesava molto e intorno a me c’era scetticismo. Io sì ho costruito delle bici, ma molte meno di mio padre o mio nonno, perché poi i telai con i tubi in acciaio sono stati sostituiti dall’alluminio, teoricamente più leggero, e non avevo gli strumenti per lavorarlo.
Così, dagli anni Novanta, ho unito l’amore per le biciclette con la passione per l’arte, dipingendo le biciclette e utilizzando la tecnica del décollage. Per farlo mi sono ispirato a Mimmo Rotella. Nasce così una mia bicicletta, per esempio, che omaggia i campioni del mondiale di calcio del 2006, fatta con i giornali dell’epoca. Una bici che ho lasciato a lungo sotto le intemperie e che non ha perso le sue caratteristiche artistiche. Ecco, questo faccio io: bici artistiche».
E che tipo di bici la sua clientela cerca di farsi trasformare in opera d’arte?
«Oggi sia le mountain bike che le bici da città non vanno di moda. Vanno di moda le gravel, un tipo di bicicletta progettata per affrontare una varietà di terreni, inclusi strade sterrate e sentieri, ma anche per performare su strada. Si tratta di un ibrido tra una bici da corsa e una mountain bike.
Questo tipo di bici io stesso me la sono creata più di trent’anni fa, prima che andasse di moda. Mi è bastato cambiare l'assetto, cambiare due o tre accessori importanti per trasformare la bicicletta per qualsiasi tipo di percorso. Naturalmente le gravel oggi sono fatte in fibra di carbonio, Alcune poi hanno degli elementi che a me fanno orrore, come il cambio elettronico o il freno a disco».
Ha dei consigli da dare a un giovane che vuole intraprendere il suo mestiere?
«Se un giovane mi dovesse chiedere “mi piacerebbe fare il tuo mestiere”, io senza ombra di dubbio gli direi di non farlo. Però attenzione, mi riferisco a qualcuno che vuole fare il mio mestiere a Palermo.
La realtà del nord Europa e persino del nord Italia è diversa. Se questo stesso giovane mi dicesse di volere lavorare fuori Palermo, gli darei la mia benedizione. Ma qui no, sia come artigiano, che come artista, che come venditore».
E quali sono, al netto di questa visione negativa, i suoi obiettivi futuri?
«Ormai è tutto a finire, perché io ho compiuto i miei 60 anni quindi sono in attesa che, dopo mia figlia, anche mio figlio finisca di studiare e trovi un lavoro. Lui questo mestiere non lo deve fare, così come non voleva il mio di padre con me. Perché la realtà palermitana con le biciclette ha un rapporto veramente difficile. Certo, se fare questo mestiere può piacergli, non lo fermerò. Se il lavoro ti piace e hai la passione, non faticherai mai un giorno.
Il rapporto dei Cannatella con le bici è sempre stato un percorso in salita. E noi ne abbiamo fatti tanti. Sia mentalmente che fisicamente. Ma so bene che dopo ogni salita c’è anche una discesa».
Sono le 16 ed è ora di rialzare la saracinesca. Della bottega. Massimo Cannatella lo fa con orgoglio da quarant’anni. In nome del padre e del nonno. No, non è ancora tutto finito.