Spugnivendoli da oltre 140 anni. È questo il vanto che porta nel suo curriculum genetico e genealogico Calogero Raptis, la cui famiglia, di origine greca, ha portato l’arte della spugna artigianale a Lampedusa. Una storia che oggi si riassume nella bottega Spugnificio Giovannino, uno dei luoghi più suggestivi dell’isola. Con l’arte e la gentilezza di chi sa tanto di questo settore ed è rimasto tra i pochi a diffonderne la cultura, Calogero ti porta in giro nel suo negozio per conoscere tecniche e origini di quel tessuto poroso che un po’ tutti abbiamo in casa, ma che dimentichiamo spesso essere stato anzitutto un’animale, da trattare, pena la sua autodistruzione da vivo, con il dovuto rispetto.
Storie che raccontano la magia del Made in Italy, con le video interviste disponibili su YouTube:
Calogero Raptis, è vero che con la sua famiglia vendete spugne da oltre 100 anni?
«Abbiamo una esperienza lunga 140 anni. Prima con la lavorazione e poi col commercio di spugne. Il commercio è nato con mio suocero, che di cognome faceva Giovannino e a cui ho dedicato l’attività. Ma la mia esperienza familiare è più remota. Mio nonno era un palombaro che alla fine dell’Ottocento si è trasferito a Lampedusa dalla Grecia, prima per pescare le spugne e poi per amore. A un certo punto smise, perché era un lavoro sacrificato, dove morivano in tantissimi sub, a cui l’aria veniva fornita grazie a una manovella da una persona che stava in barca. Spesso capitava che questa persona sveniva a causa del sole e di conseguenza morivano tutti quelli che stavano sott’acqua. Poi mio nonno ha continuato il commercio delle spugne attraverso un sistema di reti commerciali e di fornitura tramite bastimenti. Intorno agli anni Sessanta la mia famiglia si è trasferita nel Lazio, ma ha scelto sempre di trascorrere le vacanze A Lampedusa. Nell’isola ho conosciuto mia moglie e ho deciso ritrasferirmi qui e di rioccuparmi del commercio di spugne con mio suocero. Ero un capitano di navi, ma sono così tornato alle mie origini».
Ma cosa è la spugna in quanto tale?
«È un animale, tra i più antichi della fauna marina. È un porifero, quindi non si accoppia per riprodursi, ma emette delle spore batteriche come i funghi. Queste spore con le correnti marine si attaccano agli scogli e lì, nutrendosi, crescono a una velocità dai 10 ai 15 centimetri all’anno. La spugna si comporta quindi al contrario del corallo, che è anche lui un’animale, ma se lo estirpi ci vogliono millenni prima che si riproduca. Esistono più di cinquemila tipi di spugna: da bagno, da esposizione, per il beauty. Se ne può fare qualsiasi uso, persino da isolante. Una volta era utilizzata anche nelle tipografie per pulire i caratteri».
Quale è la spugna più venduta?
«La spugna-cavallo, perché vive in fondali intorno ai 60 metri di profondità. Le chiamiamo così per la sua forza. È una spugna prelibata, conosciuta e richiesta».
Può spiegarci le fasi di recupero delle spugne?
«Appena raccolta sul fondale la spugna è viva e fa un odore molto intenso e forte di frutto di mare. Non è possibile lavorarla subito. Se lo fai, la spugna stessa si autodifende attivando una infezione batterica che provoca la sua autodistruzione. Per evitarlo le mettiamo in dei contenitori di plastica a secco e aspettiamo che maturi, nel senso che deve morire. Ci vogliono 30 giorni. La recuperiamo, viene messa dentro dei sacchi a rete e gettata in acqua a spurgare. Poi vanno o sbattute sugli cogli o pestate con i piedi per togliere le sostanze organiche interne. Bisogna farlo bene perché, anche se resta una infinitesima parte di sostanza, la spugna si prende una ennesima infezione batterica che contagia tutte le altre».
Questo lavoro ha un futuro?
«Non lo vedo florido. Anzitutto perché le istituzioni non fanno nulla per salvaguardare questo tipo di mestiere, tra i più antichi di Lampedusa. Personalmente non ho chi mi potrà sostituire in futuro».
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